Ho trovato questo interessante articolo gironzolando in internet:
La piaga africana del "land grabbing"
di Anna Bono
La crisi economica mondiale tocca anche l’Africa, seppure meno di altri continenti. Da due anni la crescita dei paesi subsahariani si è ridotta, attestandosi in certi casi ben al di sotto delle previsioni. La richiesta di materie prime pregiate ha salvato i bilanci dei molti Stati africani che ne dispongono, ma in compenso si sono verificati due fenomeni negativi, entrambi aggravati dagli effetti della guerra contro la Libia e dalla caduta del regime del colonnello Gheddafi. Il primo è la perdita del lavoro da parte di centinaia di migliaia di emigranti costretti a rientrare in patria: sono così venute meno le loro rimesse e inoltre il loro ritorno ha accentuato la disoccupazione, ovunque elevata, soprattutto tra le fasce giovani della popolazione. Il secondo fenomeno negativo è la riduzione degli aiuti finanziari a vario titolo forniti ai governi e alle popolazioni africane da Stati, organismi internazionali e privati, costretti a tagliare i fondi destinati alla cooperazione internazionale allo sviluppo.
Nel caso della Libia, la morte di Gheddafi ha del tutto interrotto il flusso di capitali offerti personalmente dal leader libico che per decenni ha finanziato diversi governi subsahariani oltre a contribuire in maniera consistente al bilancio dell’Unione Africana. Un aspetto preoccupante della situazione è dato dal fatto che molti leader si mostrano poco idonei a gestire la crisi e ad adottare programmi di risanamento e di crescita praticabili e sostenibili. Al contrario, si direbbe che le difficoltà economiche favoriscano il ricorso a espedienti già praticati in passato, rivelatisi utili alla gente di potere, ma non agli interessi nazionali: in sostanza, si tratta di continuare a cedere al miglior offerente le risorse naturali del continente, senza pensare di farle rendere come potrebbero se venissero impiegate meglio, con l’unico obiettivo di portare in fretta del denaro nelle casse statali.
Dopo le ricchezze del sottosuolo, da alcuni anni è la volta delle terra, venduta o ceduta in affitto a paesi ed a imprese private di altri continenti: è il cosiddetto «land grabbing». Le terre coltivabili servono per i raccolti alimentari che integrano il fabbisogno di Stati poveri di terreni fertili o molto popolati oppure per i raccolti destinati alla produzione di biocarburanti. Uno studio presentato all’inizio di febbraio dalla Rights and Ressources Initiative, un gruppo di organizzazioni non governative, rivela che in 35 Stati subsahariani i governi in questi ultimi anni hanno requisito gran parte delle terre agricole mettendo a repentaglio la sopravvivenza di ben 428 milioni di contadini poveri, quasi metà della popolazione continentale.
In Liberia, ad esempio, oltre un terzo delle terre disponibili è stato concesso a privati stranieri e nella Repubblica Democratica del Congo la stessa sorte è toccata a 33,5 milioni di ettari di foreste. Una delle conseguenze è il moltiplicarsi delle razzie di bestiame e degli scontri armati tra comunità tribali per appropriarsi delle terre agricole e dei pascoli residui. I terreni sottratti ai raccolti alimentari per produrre biocarburanti contribuiscono poi all’aumento dei prezzi dei generi alimentari e aggravano l’impatto delle carestie. Se anche del denaro ricavato dal land grabbing si facesse buon uso, e c’è motivo di dubitarne, sarebbe ugualmente un modo poco accorto di amministrare il patrimonio nazionale.
Non ci vuole un economista per capire che quelle terre renderebbero di più agli africani se fossero loro a farle fruttare e a venderne i raccolti. L’affitto può ammontare anche solo a uno o due euro all’anno per ettaro: è tanto più basso quanto minore è la sicurezza degli investimenti a causa delle condizioni di instabilità dei territori in cui vengono fatti e dei costi per rendere le terre produttive e costruire le infrastrutture necessarie a far sì che i raccolti raggiungano porti e aeroporti. Un danno ulteriore si verifica allorché i governi stipulano i contratti senza esigere garanzie a tutela dell’ambiente e senza neanche preoccuparsi di sapere a che uso verranno destinati, lasciando i proprietari o i locatari liberi di inquinare e sfruttare senza criterio i terreni.
Accade persino che le popolazioni locali siano costrette a lasciare abitazioni, pascoli e campi senza quasi preavviso, senza ricevere risarcimenti e senza che vengano predisposti programmi di reinsediamento in nuove aree attrezzate e servite da infrastrutture. La compagnia malese Sime Darby, in Liberia, per creare le sue piantagioni di palma da olio, ha espulso con la forza migliaia di contadini senza rispettare l’impegno preso di risarcirli con somme di denaro. Nella migliore delle ipotesi gli abitanti delle terre cedute trovano lavoro come braccianti, a meno che invece vengano impiegati degli immigrati dei paesi acquirenti, come nel caso dei terreni acquistati ad esempio dalla Cina.